Bologna, mercoledì 29 gennaio 2025 – Emanuele Camilli nel 2023, subito dopo il Campionato d’Europa di Milano, si è posto un obiettivo: guadagnare per l’Italia la qualificazione individuale alle Olimpiadi di Parigi. C’è riuscito: piantando così l’ennesima bandierina lungo un cammino fatto di tappe non semplici da raggiungere e superare, ma che lui con calma, determinazione e una formidabile forza di volontà è riuscito a mettersi alle spalle una dopo l’altra. La storia di Emanuele Camilli bisogna conoscerla, proprio come lui ce la racconta in questa intervista: perché è emozionante, è istruttiva, è simbolica…
Partiamo dall’inizio.
«L’inizio è con mio padre, Gilberto. Lui la mattina lavorava all’ippodromo di Capannelle a Roma come allenatore di cavalli da corsa, poi il pomeriggio faceva l’istruttore di equitazione. Adesso è qui con me in Germania: gestisce tutta la parte dei cavalli giovani, soprattutto quando io non sono a casa. Mia mamma invece con i cavalli non c’entra: lavora tuttora in un’azienda farmaceutica vicino a Pomezia. Proprio per facilitare lei ci siamo poi trasferiti appunto a Pomezia: per mio papà era più semplice arrivare a Capannelle da lì piuttosto che da Roma, e nel pomeriggio insegnava in un maneggio vicino a Pratica di Mare. Io ho iniziato a montare da piccolissimo con lui».
Quindi suo padre è in Germania con lei e sua mamma è rimasta in Italia?
«Sì, fino a oggi hanno fatto avanti indietro: ogni tanto mio papà a Roma, ogni tanto mia mamma qui. Ma tra poco lei andrà in pensione e ci raggiungerà stabilmente».
Ma a che età lei ha cominciato a montare?
«Ah… non mi ricordo proprio! Ero piccolissimo, forse tre o quattro anni, con i pony… Mio papà è stato il mio istruttore fino a quando ho preso il 2° grado. Ho montato tantissimi cavalli scartati dalle corse perché non abbastanza veloci: li facevamo saltare e tanti di questi si sono rivelati molto adatti. Tutta la mia carriera da junior e young rider l’ho fatta con questi cavalli».
Quel è stata la tappa più importante di questo suo percorso giovanile?
«Di risultati importanti da giovane non ne ho avuti tantissimi, però diciamo che ho cominciato a fare i primi Gran Premi quando ero veramente piccolo… Poi andavo a scuola e quando ho finito il liceo scientifico si è posta la questione: che fare?».
Ecco: e come ha risposto a questa importante domanda?
«Dovevo scegliere: l’università oppure proseguire lo sport da solo. Mio padre mi ha sostenuto nello sport fino ai miei 18 anni al massimo delle sue possibilità, ma da lì in poi se avessi deciso di proseguire con i cavalli mi sarei dovuto arrangiare. In effetti io dentro di me avevo sempre avuto questo sogno, anche se sapevo che sarebbe stato difficilissimo… la realtà me lo diceva, me lo dimostrava. Però… io ho comunque scelto i cavalli».
E quindi come ha fatto?
«Sono andato ad aiutare per un periodo Luca Calabro al Circolo Ippico Toscano quando lui si è fratturato una gamba a seguito di un incidente e non poteva ovviamente montare… poi sono andato da Giuseppe Allegri il quale all’epoca era un commerciante abbastanza famoso, da tutti conosciuto con il soprannome di Bambino: aveva la sua base tra Milano e Torino, a Gravellona Toce. Lui mi ha preso con sé proprio come un figlio… ».
Cavalli da commercio, dunque.
«Sì, un’infinità. Giuseppe Allegri mi portava con sé ovunque: partivamo in macchina di notte per andare in Olanda a provare cavalli da acquistare girando per moltissime scuderie… Lui ne comperava circa venti ogni due settimane, cioè quaranta, cinquanta al mese che io montavo prima in Olanda durante la prova poi in Italia per presentarli ai clienti».
Un momento molto formativo, da un punto di vista della sua esperienza di cavaliere…
«Estremamente formativo: dovevo montare una enorme quantità di cavalli di ogni tipo completamente sconosciuti interpretandoli al meglio nel minor tempo possibile. Montavo e saltavo continuamente, dalla mattina alla sera… per me è stata un’accelerazione folgorante per la mia esperienza di cavaliere, fondamentale per la mia crescita direi proprio di uomo di cavalli: ho imparato come si sceglie un cavallo, cosa bisogna guardare e cercare, come preparare e gestire i cavalli per essere presentati ai clienti… cioè le cose basilari per svolgere un’attività di carattere commerciale. Giuseppe Allegri è tuttora una delle persone più carismatiche che io abbia conosciuto in Italia: da lui ho imparato tantissimo».
Però forse l’aspetto agonistico ne avrà risentito…
«Più che altro non c’è stato, l’aspetto agonistico. Le gare sono state pochissime in questa fase, tra i miei 18 e 21 anni, non ce ne sarebbe stato il tempo: il lavoro era tutto incentrato sull’andare a cercare cavalli, provarli, sceglierli, comperarli, portarli in Italia, presentarli ai clienti, venderli, ripartire per andare a cercarne altri… e così via, praticamente senza soste. Tutto molto intenso, ma tutto molto produttivo».
Anche molto faticoso, no?
«Mah… a quei tempi la fatica non la sentivo perché la mia voglia di imparare era superiore all’intensità di qualsiasi sforzo. Non mi ricordo di essermi sentito stanco… o meglio, stanco talvolta sì, ma sempre molto contento perché in qualche modo percepivo che la cosa stava funzionando. Certo, avrei ovviamente voluto fare i concorsi e andare in gara, però allo stesso tempo ero consapevole che stavo vivendo qualcosa di fondamentale per me e per la mia vita».
Oltre a un arricchimento di carattere professionale ci sono state anche soddisfazioni di carattere economico?
«Sicuramente. Giuseppe Allegri mi trattava molto bene a livello economico. Ma quello che lui mi ha dato è stato soprattutto un preziosissimo insegnamento: è stato grazie a lui che ho capito come funzionava il mestiere anche a livello commerciale. O meglio: pensavo di aver capito… sarebbe molto presuntuoso da parte mia dire di aver capito… in effetti come funziona veramente il nostro mondo non l’ho ancora davvero compreso!».
Però poi questo periodo arriva a una sua conclusione…
«Sì, perché Giuseppe e io abbiamo deciso di comune intesa che in previsione di una mia carriera sportiva avrei dovuto compiere il grande passo di trasferirmi all’estero… e così ho fatto».
Ma come è accaduto esattamente? Non sarà stato facile…
«In realtà è stato molto semplice, davvero. Grazie a una serie di contatti nati durante la nostra attività sono riuscito ad andare a lavorare presso un commerciante olandese, Hank Melse. Il suo era un tipo di commercio più a lungo termine, diciamo: comperava i cavalli giovani e li portava avanti nella carriera sportiva fino a un livello medio/alto per poi venderli una volta maturi e pronti. Quindi per me c’è stata la possibilità di andare molto più spesso in concorso. È stato proprio durante il periodo con Hank Melse che ho debuttato in gare internazionali, montando cavalli veramente buoni e quindi potendo crescere a mia volta sia tecnicamente sia agonisticamente».
In questa fase della sua vita qual è stato il principio tecnico ispiratore per la sua equitazione? Il suo modello, il suo punto di riferimento… ?
«Fino a prima del mio trasferimento in Olanda è sempre stato mio papà. Lui mi ha insegnato un’equitazione molto classica, mi ha dato basi molto solide dedicando moltissimo tempo nel cercare di farmi stare il più correttamente possibile a cavallo, quello che purtroppo oggi si tende a sottovalutare. La tecnica, lo stile… insomma, la cosiddetta bella equitazione è del tutto funzionale al risultato agonistico, ma per arrivarci il percorso è lungo: ci si deve credere senza tentennamenti e lavorare ogni giorno per migliorarsi in quel senso».
In lei oggi lo si vede magnificamente…
«Beh… insomma. Direi che dipende dal tipo di confronto… Forse mediamente parlando sì, ma se il termine di paragone è Steve Guerdat… allora direi che quello che si vede in me è molto povero!».
Torniamo all’Olanda. Poi cosa succede?
«Ho fatto tanti concorsi, ho conosciuto una gran parte di mondo di cui nulla sapevo, ho fatto le prime gare in America… Ho avuto la possibilità di crescere semplicemente stando a contatto ogni fine settimana con i migliori cavalieri e quindi guardandoli, osservandoli… il loro lavoro di preparazione, il campo prova, le imboccature, i dettagli… tutto, qualunque cosa, per poi cercare di riprodurla perché non avendo un tecnico ed essendo abbastanza autodidatta quella era per me l’unica possibilità per imparare e poi cercare di mettere in pratica quello che avevo visto».
Ed è questo il momento di un incontro importante…
«Eh sì, quando avevo 23 anni. Ho conosciuto Vivien Schockemoehle, ci ha presentato Roberto Cristofoletti, amico comune. Io per l’appunto stavo in Olanda da Hank Melse, lei stava in Germania, ma eravamo a mezz’ora di distanza, vicinissimi… ».
Nasce quindi un rapporto che per entrambi diventa fondamentale non solo da un punto di vista sentimentale, ma anche professionale e lavorativo…
«Vivi lavorava come manager di un’azienda farmaceutica, stava facendo una carriera molto brillante, ma a un certo punto questa azienda è stata venduta e di conseguenza ci sono stati alcuni cambiamenti proprio di carattere logistico… Io cominciavo a sentire un po’ stretto il lavoro da Hank Melse, sono sempre stato un tipo intraprendente e avvertivo il bisogno di fare qualcosa per conto mio. Così abbiamo deciso di unire le nostre forze, cioè i nostri risparmi, per aprire insieme una società per il commercio di cavalli sportivi».
Il papà di Vivien, Paul Schockemoehle, è uno dei più grandi commercianti e allevatori del mondo, dopo essere stato un grande campione in sella: Vivien non aveva mai pensato di lavorare con lui?
«No, zero assoluto. Dopo la laurea Vivi ha iniziato a lavorare per quell’azienda farmaceutica e pian piano si è conquistata una posizione brillante, importante. Nei suoi sogni ci saranno stati certamente i cavalli… ma mentre lavorava non ne ha mai avuto il tempo».
Economicamente parlando la decisione di avviare un’attività in comune avrà avuto una dimensione abbastanza articolata… Lei nel frattempo era quindi riuscito ad accantonare le risorse economiche sufficienti per tutto ciò?
«Assolutamente no! Abbiamo iniziato in modo del tutto incosciente, se ci ripenso adesso direi senz’altro folle… Ma da giovani si è anche un po’ sconsiderati e si prendono queste decisioni avventate. Vivi fino a quel momento aveva sempre vissuto solo del suo lavoro. Io avevo da parte un po’ di soldi che ero riuscito ad accantonare nel tempo. Abbiamo unito tutti i nostri risparmi e… siamo partiti con qualche cavallo giovane, così, buttandoci… io avrò avuto 24 anni e Vivi 25, quindi direi che più o meno sarà stato il 2006».
Una società per il commercio di cavalli sportivi: ma facendo base dove?
«All’inizio non sapevamo proprio dove andare… Poi si è liberata una scuderia da Alwin Schockemoehle, fratello di Paul, e siamo riusciti ad affittarla. Lì ogni tanto dall’allevamento di Paul arrivava qualche cavallo giovane appena domato… io tentavo di comperare qualche cavallo un po’ più pronto per riprendere a uscire in concorso… Rispetto a quando ero in gara tutte le settimane stando da Hank Melse ho semplicemente dovuto ricominciare tutto da capo, da zero… ».
Ci vuole anche una bella dose di forza mentale in tutto questo…
«Sì, ma poi c’è stato tutto un susseguirsi di eventi che… Insomma, io sono convinto al cento per cento che non c’entri niente l’abilità… è come se le cose improvvisamente ti cadano addosso tutte insieme… ».
E le sono effettivamente… cadute addosso tutte insieme?
«Sì, esatto. Io montavo la mattina molto presto, poi mi mettevo in movimento tutto il giorno per andare a cercare cavalli da comperare sia per alcuni miei clienti sia per me, se fossi riuscito a trovare il cavallo giusto a un prezzo possibile. È stato così che un giorno ho incontrato un cavallo che mi piaceva moltissimo ma che costava una cifra completamente fuori dalle mie possibilità… Ci ho pensato, ci ho pensato, ci ho pensato… ma non avrei proprio potuto… ».
Quindi ha lasciato perdere?
«No. Ho preso il coraggio a quattro mani, sono andato da Paul e gli ho detto di questo cavallo, che mi piaceva da morire, che però per me costava troppo e che avrei avuto bisogno di soldi per riuscire a comperarlo. Allora lui mi ha detto non c’è problema, allora io gli ho detto vado a montarlo e faccio il video… e lui mi ha detto non c’è bisogno del video, mi fido di te, dimmi quanto devo mettere io e quanto puoi mettere tu… Io ricordo di aver messo una grandissima parte dei miei soldi per poter acquistare solo il 20% di quel cavallo, il resto l’ha messo Paul. Ma è stata un’ottima operazione: quel cavallo si è rivelato davvero un eccellente acquisto e poi lo abbiamo venduto molto bene negli Stati Uniti. Ed è così che è cominciato tutto, che è venuto tutto il resto».
E cioè?
«Beh, la cosa scomoda da Paul è che ci sono sempre mille persone per cui allenarsi e fare bene il proprio lavoro è sempre difficile. La mia scuderia era in affitto da Alwin, ma le strutture e i campi erano in comune tra i due fratelli, quindi si lavorava sempre in mezzo a questo traffico continuo… Ma a un certo punto Ludger Beerbaum mi dice di aver costruito una scuderia nuova per Philip Weishaupt a Riesenbeck, che dista una quarantina di minuti di strada da Paul, e mi propone di trasferirmi in quella rimasta libera. Beh, per me è stato come entrare all’università: c’era Ludger ancora in piena attività, e tutti i suoi cavalieri, Marco Kutscher, Henrik von Eckermann, appunto Philip Weishaupt… per me è cambiato tutto. Stando a contatto con cavalieri di quel calibro si costruiscono basi imprescindibili per fare l’equitazione. Se vedi loro che lavorano un cavallo in un certo modo, beh… vuol dire che quello è il modo».
Ma quindi vi siete separati da Paul?
«Solo logisticamente. Io ho continuato a cooperare con lui: dopo quel primo cavallo in comune c’è stata una serie di operazioni molto positive per cui tutto è andato nel verso giusto… e da quel momento in poi tutti i cavalli che ho montato sono rientrati in questa situazione. L’inizio è stato duro, ma poi sia Paul sia Ludger ci hanno messo nella condizione di fare il nostro lavoro nel migliore dei modi e nella tranquillità più assoluta. Con i cavalli il lavoro è molto rischioso, quando si compra bisogna investire un sacco di soldi ma lo si fa con uno spirito diverso sapendo di avere persone del genere al fianco. È come se loro mi avessero detto ok, se trovi un cavallo buono compralo, non ti preoccupare, se succede qualcosa ci siamo noi».
Ma adesso lei e Vivien non fate più base a Riesenbeck…
«No, infatti. Un anno e mezzo fa abbiamo acquistato una scuderia non lontano da quella di Paul, un chilometro circa di distanza, molto bella, ci sono ventiquattro box. Abitiamo in affitto lì vicino, ma tra qualche anno costruiremo la nostra casa sul terreno della scuderia».
Quindi anche dal punto di vista umano il rapporto con Paul Schockemoehle è gratificante?
«Io non posso che dirne bene. Certo, è un uomo che ha un modo molto personale di esprimere la sua grande umanità: non regala mai niente a nessuno, ma cerca sempre di fare in modo che chi ha delle idee veramente buone le possa mettere in pratica. Ha un cervello diverso dagli altri e come tutti i geni ha le sue peculiarità. Su tutti i cavalli che abbiamo avuto insieme lui mi ha sempre lasciato piena libertà di decidere: li ho trovati io, li ho scelti io, lui ha solo partecipato economicamente, anche su Odense. Però nella mia scuderia non c’è un solo cavallo del quale io non possieda almeno il cinquanta per cento. Altrimenti non li monto. Voglio avere sempre un potere decisionale».
Dal momento del suo trasferimento a Riesenbeck prende avvio quindi la sua nuova vita agonistica e professionale?
«No, prima c’è stata un’altra tappa fondamentale, l’incontro con Kent Farrington. L’anno successivo a quello del nostro trasferimento da Paul a un certo punto ho deciso di andare in Florida: ho sempre pensato che il grande commercio per il cavallo sportivo sia lì, negli Stati Uniti… Quindi ho deciso di fare questo investimento così pesante: ho preso i miei due cavalli più importanti e li ho portati in Florida. Ma è andata in maniera disastrosa: arrivato quasi alla fine del circuito a Wellington non avevo venduto niente e per di più non ero riuscito a fare una sola gara perché i costi erano folli… ».
Qui entra in scena Farrington?
«Sì, io lo conoscevo solo di vista, ma ero disperato: così l’ho avvicinato e gli ho detto ti prego, dammi una mano, sono in difficoltà, un mondo nuovo, non capivo proprio le dinamiche… e lui mi ha detto non c’è problema, domani porta i due cavalli a casa mia, ci penso io. Da lì è nato un rapporto bellissimo, ho vissuto a casa sua e ogni anno da gennaio a marzo sono stato ospitato da lui. Kent mi ha aiutato enormemente a fare un salto di qualità a livello sportivo: l’unica cosa che ti manca, mi diceva, è che la tua mente creda possibili le cose. È stato lui a convincermi di fare davvero lo sport… fino a quel punto infatti era come se io mi fossi accontentato, come se mi fossi messo d’accordo con me stesso sul fatto di essere arrivato al mio limite».
Il limite si è innalzato notevolmente! Lei ha creato un insieme di cose magnifiche…
«Mah, diciamo che creare è un verbo esagerato. Io credo che la componente fortuna abbia avuto un grandissimo ruolo in tutto questo… però… sì, mi rendo conto di essere un privilegiato. Il che è anche responsabilizzante: perché in questo modo io sono perfettamente consapevole che i successi e gli insuccessi dipendono sicuramente solo da me stesso, e non dalle mancate occasioni o possibilità».
E adesso progetti, prospettive, sogni, aspettative… ?
«Semplice: continuare a lavorare cercando di migliorare i risultati il più possibile, dal punto di vista sia sportivo sia commerciale. Alzare il livello, in modo tale che sia possibile la crescita in entrambi gli aspetti».
Perché tanto più si migliora commercialmente quanto più si migliora sportivamente: una sorta di interdipendenza?
«Sì, sicuramente, anche se la realtà è che i cavalli più richiesti sono proprio quelli che servono per fare lo sport… e a quel punto diventa impossibile rifiutare le offerte che poi permettono il ricambio in scuderia. Ho investito, investito, investito… adesso dovrei incassare per poi ricominciare ma se rinunci a vendere quei cavalli, e dunque rinunci a incassare, il meccanismo si blocca e la ruota non gira più. È qui che dovrebbero intervenire persone amanti dello sport che permettano ai cavalieri di conservare i cavalli di alto livello per crescere e migliorare. Ma trovare persone con le motivazioni giuste da coinvolgere nello sport non è facile, anzi è molto difficile: penso che sia quello che manca all’Italia. Io sono sinceramente convinto che a livello tecnico siamo eccellenti: il problema è che, a differenza di altri, a noi manca quel tassello. Un tassello fondamentale».